Parlare di Shoah oggi vuol dire soprattutto raccontare memorie, tenerle in vita, non dimenticarle mai. Parlare di Olocausto vuol dire anche e soprattutto parlare di morte. Ma non solo: anche di speranza. Di solidarietà e di supporto reciproco. Di piccole comunità che si formavano nelle stanze dei campi di concentramento voluti da Hitler per epurare il mondo dalla razza corrotta e far emergere solo quella ariana. Parlare di Shoah vuol dire ripercorrere le storie di chi ha portato fino a noi ciò che è stato.
Shoah vuol dire parlare di speranza
La speranza di chi non ha mai rinunciato a credere che ce l'avrebbe fatta nonostante ciò che vedeva intorno. I racconti dei sopravvissuti come Liliana Segre, oggi Senatrice a Vita ma un tempo tredicenne in un campo di concentramento, puntano molto su questa parola. Nel suo caso, la paura di non riuscire a sopravvivere l'ha spinta, invece, a tramutarla in fantasia. Nei suoi racconti di quando era la Matricola 75190 di Auschwitz si legge, tra le righe, una grande speranza.
Avevo scelto, quasi in modo automatico, bestiale, irrazionale, infantile – in fondo ero ancora una bambina – e nello stesso tempo in modo maturo, vecchio, ottuagenario – in fondo ormai tale ero diventata – avevo scelto di non essere lì, perché era la realtà intorno a me che era inaccettabile. Avendo scelto la vita – ho sempre scelto la vita e anche adesso che sono vecchia scelgo la vita. Non potevo accettare la morte intorno a me e quindi avevo scelto di non vedere. Avevo scelto di essere una stellina.
Shoah vuol dire vita
Sempre dal racconto di Liliana Segre, viene fuori un'altra parola importante da collegare alla Shoah: vita.
Cominciò questa vita di prigioniera e schiava. Mi ricordo come piangevamo tutte nei primi giorni, ma scegliemmo la vita. Scegliemmo la vita immediatamente, scegliemmo la vita, volevamo vivere, capimmo che dovevamo mettere al bando nostalgie e ricordi, capimmo che, se volevamo vivere, dovevamo non ricordare, perché il presente, in quel momento, era assolutamente tragico e dolcissimo il passato per ognuna di noi, e non avremmo potuto sopportare quel presente ricordando il passato. Se volevamo scegliere la vita dovevamo proibirci ogni ricordo del passato, dovevamo mettere tutto il nostro impegno e le nostre forze per sopportare quella realtà in quel luogo dove eravamo arrivate per la sola colpa di esser nate.
Shoah vuol dire farsi domande
Ci sono molte ricorrenze che puntano sulla solidarietà e sulla pace, ma sono poche quelle potenti come la Giornata della Memoria per parlare di uguaglianza, di fratellanza, di non discriminazione. Il piano di Hitler e dei suoi seguaci, l'intero apparato nazista, si fondava sull'odio cieco, che non si poneva domande. Era pura esecuzione di ordini senza senso, che pure venivano portati a termine con orgoglio e alla parfezione. Ai ragazzi oggi è invece fondamentale dire che porsi domande - farne e farsene tante, così da arrivare poi anche a quelle giuste, provando e sbagliando - è la base pr sviluppare una coscienza critica, uno sguardo sul mondo che non sia solo assoggettato a quello che vogliono gli altri. Genitori compresi. Parlare del nazismo e di quello che ha provocato vuol dire anche questo: cercare la propria individualità vuol dire non focalizzarsi su un solo punto di vista, ma ampliarlo. Da questo si generano un fiume di valori importanti come la tolleranza, che non deve essere mai dimenticato per poter vivere in equilibrio con se stesso e con gli altri.